Céline, “Viaggio al termine della notte”

DI MARIO MESSINA

Recensire quello che, da più parti, è ritenuto un capolavoro contiene grandi rischi.
Darne una lettura non pienamente osannante potrebbe infatti apparire come la violazione di un tempio sacro.
Non posso nascondere, però, che questo testo ha suscitato in me impressioni contrastanti.

I primi capitoli, dedicati all’ esperienza bellica o alla crudele esperienza coloniale europea, lasciano presagire un capolavoro assoluto ed un modo di raccontare drammi in maniera quanto mai coinvolgente ed unica.

Si tratta di una speranza che però viene delusa e il libro, nel suo svilupparsi, da vita ad una narrazione che perde di spessore e profondità.

Una storia che di fatto perde la maiuscola pur ricorrendo ad un linguaggio che rimane sempre di altissimo livello.

Una capacità descrittiva immaginifica in grado di trovare nobili espedienti retorici pur trattando vicende proprie di chi popola i bassifondi della Storia.
Il protagonista non si configura come un disadattato, quanto piuttosto come un cinico disincantato, ai limiti del rassegnato.

Uno spettatore che nulla fa per incidere sulla realtà. Questo determina che nessun orizzonte emancipatorio venga concepito per il popolino, vera carne da macello della Storia.

La notte diventa, così, una condizione esistenziale che nulla ha a che vedere con la rotazione terrestre.

Il buio avvolge le vite dei protagonisti offrendo come unico orizzonte possibile parole come “morte, cimici, fame, depravazione”. Senza che mai una pallida alba si intraveda.

Proprio questa assenza di vie d’uscita connota in senso reazionario questo romanzo.

Il ricco quasi mai compare o, se lo fa, mai emerge come causa di questa notte che opprime le esistenze. Un mero inciso ma corredato da una ironia che non taglia e che non ha la pretesa di stravolgere la realtà.

Quando si dice: descrivere il mondo senza però avere il desiderio di cambiarlo.

Immagine tratta dal web

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