David di Donatello speciale a Diego Abatantuono. L’intervista

DI GIOVANNI BOGANI

Ieri sera ha ricevuto un David di Donatello speciale. Per una carriera assolutamente speciale. Iniziata al Derby di Milano, con Enzo Jannacci, Beppe Viola, Cochi e Renato come compagni di serate, di palcoscenico, di musica e chiacchiere senza fine.

E proseguita con Salvatores, e i suoi film in giro per il mondo, dal Marocco al Messico, passando per un’isoletta del Dodecanneso nella quale girare un film che sarebbe arrivato all’Oscar.

È tranquillo, Diego Abatantuono. Non proprio come Anthon Hopkins, che quando ha vinto l’Oscar, sei giorni fa, dormiva nella sua casa in Galles. Anche Diego è in campagna, il suo Galles è nelle Marche, nella casa in collina dove ama vivere, fra un film e l’altro. L’ultimo ha finito di girarlo da appena una settimana.

Diego, che effetto fa questo premio?
“Di solito sono scettico verso i premi: e poi, storicamente, mi è sempre capitato di fare degli splendidi assist, ma per i premi degli altri.

Quando girai ‘Regalo di Natale’ con Carlo Delle Piane, la coppa Volpi a Venezia la prese lui; quando feci ‘Il toro’ di Mazzacurati con Roberto Citran, la coppa Volpi la prese lui; quando feci ‘Per amore, solo per amore’ con Alessandro Haber, il David di Donatello lo prese… beh, ormai mi ero abituato. Certo, l’Oscar per ‘Mediterraneo’ siamo andati a prenderlo volentieri. Ma non vivo per i premi”.

Questo David speciale forse rappresenta un segnale nuovo: si apprezza, si celebra, si riconosce anche la commedia.
“Sì, forse qualche cosa cambia. Per la prima volta, quest’anno, candidato ai David come miglior attore protagonista c’è un signore che si chiama Renato Pozzetto. E tutti noi siamo figli suoi”.

La comicità surreale di Cochi e Renato. Di chi, ancora, si sente debitore, artisticamente?
“A me, ragazzo che scivolava fra i tavoli del Derby, il cabaret di Milano dove si esibivano tutti i talenti degli anni ’70, ha insegnato moltissimo Enzo Jannacci. La sua umanità, il suo genio, il suo candore.

E Beppe Viola, giornalista e poeta. E poi, i padri di tutti, tutti quelli che fanno il mio mestiere sono quelli lì, degli anni ’60: Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi. Non c’è niente che non sia stato inventato da loro”.

Dei suoi film, quali ama di più?
“Ne amo molti. Uno che ha avuto una vita sfortunata, ‘Per amore, solo per amore’ di Giovanni Veronesi, film che secondo me andrebbe visto ogni Natale, e che invece è sparito dalla circolazione.

E poi ‘Nel continente nero’, girato in Kenya insieme a Corso Salani, persona dolcissima scomparso troppo presto. E tutti i film girati con Gabriele Salvatores, ho perso il conto di quanti ne ho fatti”.

Ha un hobby, una cosa che ama fare più di ogni altra?
“C’è chi ama le auto sportive, chi la barca a vela. Io amo le cene con gli amici. Tutti i miei soldi li ho spesi offrendo cene. Quando ho capito di avere avuto più fortuna di loro, ai primi film da protagonista, ho cominciato a offrire cene. La mia felicità è stare in mezzo a gente che si diverte e che è felice”.

Ha dato quello che ha ricevuto, dalla vita?
“Ci ho provato”.

Pochi giorni fa è nato il suo terzo nipotino…
“Sì, Michelangelo. Una gioia immensa, una meraviglia. Un grande milanista, peraltro. Si vedeva già nell’ecografia”.

C’è qualcosa che avrebbe voluto fare, e non ha fatto?
“Girare con uno dei mostri sacri americani: Scorsese, Coppola, De Palma, Spielberg. Ma non parlo bene l’inglese, non lo parlo neanche male: non lo parlo proprio”.

Una persona che le manca?
“Molte. Ettore Scola, per esempio. Ci facevamo sempre gli auguri per il 25 aprile, la festa che mi sta più a cuore in tutto l’anno. Ridevamo, scherzavamo, ci trovavamo a casa l’uno dell’altro. Ettore era intelligente, spiritoso, garbato”.

Con chi desidererebbe fare un film?
“Con Carlo Verdone. Non mi stanco mai di vedere i suoi film, e lo stimo tantissimo, come artista e come persona. Ci siamo incrociati solo una volta, in carriera. E mi piacerebbe proprio provare a incontrarci di nuovo, magari per tutto un film”.

Quanta fortuna, quanto talento e quanta ostinazione, nel suo successo?
“La fortuna ci vuole sempre, e io mi sento fortunato. Ma ci vuole anche intraprendenza: quando avevo iniziato a fare piccole cose sul palco a Milano, affittai un teatrino in piazza Navona. Un gesto sconsiderato, folle. Invitai tutti: Benigni, Villaggio, Vanzina. Finii tutti i soldi che avevo. Ma quella sera, fra gli spettatori, c’era Monica Vitti. Lo spettacolo le piacque: mi volle in “Tango della gelosia’. In quel momento iniziò tutto”.

Quante volte è nato e rinato?
“Con il personaggio del ‘terrunciello’ sbancai al botteghino. Ma fui anche spremuto come un limone: feci tredici film in due anni, roba da pazzi. Alla fine del 1982, ero svuotato, finito. Uscii di scena.

Mi ritrovò Pupi Avati, un poeta, che mi scelse per ‘Regalo di Natale’. Poi, con Gabriele Salvatores, ho trovato un gruppo di amici che viaggiano, e i personaggi viaggiano, vivono, crescono insieme a loro”.

A chi dedicherà il suo David?
“A due dei miei più cari amici, il Bistecca e il Biofa. Il Biofa, che si alzava alle sei ogni mattina e faceva l’autotrasportatore, la persona più buona del mondo. E il Bistecca, la persona più spiritosa che ho mai conosciuto. Se ridevano loro a una mia battuta, allora sentivo di aver fatto qualcosa di buono. Ora non ci sono più, il Biofa è morto nei primi giorni del covid, e il Bistecca è morto di una morte assurda, avvelenato dai funghi. Questo David è per loro”.

Immagine tratta dal web

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