Di Ferragosto e stelle cadenti

DI GIOVANNI BOGANI

 

Eccomi. Ricomincio a scriverti, e ogni volta è più dura. Perché devo ritrovarti, in mezzo al rumore dei giorni. Devo ritrovarti, in fondo alle cose che mi riempiono gli occhi. C’è rumore, nella mente, c’è il rumore delle piccole cose, degli orari, della spesa da fare, della giornata da inventare. E ti dimentico. Adesso è estate, è ferragosto. O meglio, domani è ferragosto. Sono venuto qui al piazzale Leonardo da Vinci. Tu non ci sei stata mai. È il posto dove Leonardo portò la sua macchina per volare, la mise addosso al suo amico Zoroastro, e lo convinse a lanciarsi giù per la montagna.

Già. Chissà come lo convinse. Perché Zoroastro volò per centinaia di metri, c’è chi dice due chilometri, per poi schiantarsi a terra, senza però morire. Si ruppe una gamba, credo. Chissà che cosa gli dissero, dopo, tutti gli amici di Leonardo. Chissà se Leonardo lo abbracciò, lo baciò. Pare che ci fosse una relazione speciale, fra loro due. Chissà se Zoroastro ebbe paura, quanta paura, mentre volava, il primo uomo della terra a volare. Il primo uomo della storia dell’umanità a staccarsi da terra e alzarsi in volo.

Io ho provato ad alzarmi in volo. Ho provato a scrivere questo libro, e a metterci dentro tutto quello che sapevo di una vita, la tua. E quello che so di un’altra vita, la mia. È stato un cammino duro per arrivare fino quassù, e fra poco dovrò lanciarmi, come Zoroastro, lasciare la terra. Dimenticarti. E volare un po’, goffamente, fino a quando ricadrò a terra.

Ieri è morto Gino Strada. Lo hanno scritto tutti. Io ho provato un dolore come semi avessero portato via una mano. Gino Strada lo avevo conosciuto di sfuggita, una cena di Emergency al Lido di Venezia, mi pare, durante una Mostra del cinema. Ti spiego chi era, mamma. E lo spiego a chi magari leggerà queste righe, e non ne sapesse nulla. Era un medico bravo, che poteva fare un fracco di soldi standosene a operare a Milano. E invece ha deciso di mettere su ospedali di guerra, in Afghanistan e dovunque ce ne fosse bisogno. Lì curava gratuitamente tutti: buoni e cattivi, civili e soldati, chi aveva sparato e ucciso in nome di Allah o in nome di Cristo.

E poi era stato preso da una granata, una sventagliata di mitra, un colpo di fucile. Curava bambini che si erano chinati a giocare con un giocattolo, e questo giocattolo gli scoppiava fra le mani. Gino Strada aveva visto l’orrore, e per quasi trent’anni ha cercato di cucire l’orrore, di riparare all’orrore. La persona più vicina a Gesù Cristo, alla sua parola, che abbia conosciuto in questa epoca così attenta alle diversità, ma così priva di amore.

362. Stella cadente

Sono qui, non c’è nessuno, musica nelle cuffie. Il rumore delle cicale, le zanzare che cercano l’assalto, nonostante l’Autan sulle braccia. Il succo d’arancia bevuto dal cartoccio. Il sole che piano piano scende, la luce che piano cambia e diventa più bella. Devono essere cipressi quelli attorno a me. Non avevo di meglio da fare oggi. Il calore, giù in città, su nella mia casa, era come stare in un microonde. Qui non pago niente, posso stare a questo tavolino fino alle otto, fino a quando viene buio. E posso godermi questa vacanza di un’ora.

Posso scrivere quello che voglio. Posso ritrovare le tue parole, anche se tu non ci sei davvero più, ogni giorno ti allontani. Non mi parli. Del resto, non mi hai mai parlato. Non abbiamo mai parlato dei tuoi problemi, e neanche dei miei. Abbiamo vissuto, a cento metri di distanza, come forse vivono tanti altri. Paralleli. Senza riuscire a dirsi davvero le cose. Ma sapendo che, almeno, l’altro da qualche parte c’è.

Adesso sono da solo. A dirmi che cosa devo fare. A essere mio padre e mia madre, mio fratello e mio figlio. A guardare questi bei cipressi – e ci sono anche degli altri alberi, forse sono dei faggi: dovrei imparare un po’ di botanica – e ad aspettare che arrivi l’ora di scendere giù. Le cicale sugli alberi ora fanno a gara con i Sigùr Ròs nelle cuffie.

Tu sentivi gli acufeni. Dei rumori, nella testa, che non ti lasciavano mai. Io, abituato a sentirti lamentare, non ci facevo caso. Ma forse erano terribili davvero: li sentivi anche quando andavi a letto, non smettevano mai. Ti strappavano a te stessa, non ti lasciavano in pace. Per questo forse tenevi la televisione così alta, per farli stare zitti. Questi campanellini che ti tormentavano, piccoli serpenti a sonagli che ti accompagnavano. Poi le gocce di Tavor, e la speranza di lasciar perdere tutto, protetta dal letto, dalle lenzuola, dalla tua stanza.

Quando dormivi, e davo un’occhiata nella tua stanza, ti guardavo immobile, con la bocca aperta. Avevo sempre il terrore che tu fossi morta. Invece era il momento in cui riuscivi a dimenticare gli acufeni, questi minuscoli ciondolini che continuavano a tintinnare, tutto il giorno, dentro le tue orecchie, come queste cicale che non smettono da ore. Adesso, qui sopra, in un cielo azzurro come un cartoncino Bristol, un rumore diverso. Un aereo di cui ho sentito prima il suono: e poi, dopo qualche istante, l’ho visto. Quando il sole l’ha colpito sulla fusoliera, scintillando sembrava una stella, una stella cadente che s’illumina per pochi istanti, quelli necessari a desiderare forte una cosa, la più importante.

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