Discriminazione: veleno subdolo e destabilizzante della società

DI CRISTINA BELLONI

 

Stordimento e stranita sorpresa, insieme ad un senso di ingiustizia e frustrazione pervade chi si trovi ad essere oggetto di una qualche forma di discriminazione. Che sia dovuto all’origine etnica, al genere, al credo o all’orientamento sessuale, l’essere discriminato coinvolge l’anima stessa, la percezione della propria essenza.
La storia ed anche l’attualità ci restituiscono moltissimi esempi di discriminazione.

Tutte le forme di aggregazione umana sembrano aver avuto bisogno di modellare la propria struttura creando una categoria dei reietti; di riversare le proprie incertezze su minoranze o specifici ambiti delle società, relegando ad inferiore, inaccettabile o “intoccabile” la condizione di altri esseri umani.

La discriminante definita erroneamente “razziale” (erroneamente perché, come le recenti analisi del DNA hanno dimostrato, la razza umana è una sola ed ha antenati comuni, a prescindere dal colore della pelle o da altre differenze somatiche), ha origini antichissime.

Già le schermaglie, le aggressioni o guerre tra tribù ancestrali, nelle quali si facevano prigionieri e li si riduceva al ruolo di schiavi, racchiudevano il germe del disprezzo verso la condizione di chi veniva catturato; presupposto alla base di quel sentimento di differenza capace di maturare in seno ad un uomo verso un suo simile.

L’altro, il diverso, il non appartenente non era degno del rispetto e del riconoscimento dovuto ai membri della famiglia, del clan, del gruppo, e quindi poteva essere reso schiavo, maltrattato e persino ucciso senza remore.

Nel corso dei secoli ci troviamo spesso dinanzi a discriminazioni religiose ed etniche che hanno bollato intere popolazioni sino ai giorni nostri.
Spesso legittimato da editti o leggi inique, il marcare come “esseri inferiori” alcune parti della società ha sdoganato le peggiori pulsioni dell’anima umana.

La persecuzione verso la stirpe ebraica, per esempio, perpetrata in Europa per millenni ha dato vita nell’ultimo secolo, ad uno dei più orrendi e inconcepibili stermini di massa che la storia ricordi. Ad un palese, autorizzato imbarbarimento della coscienza che erroneamente si credeva potesse essere ormai alle spalle della colta e civile pluralità occidentale.

Ma il patimento ebraico rimane solo uno dei moltissimi casi dolenti di spregio della dignità altrui che si sono avvicendati o si avvicendano tutt’ora nel faticoso cammino collettivo verso una migliore e più matura concezione di noi stessi come un’unica razza.

L’apartheid in Sudafrica che discriminava la maggioranza della popolazione perché di colore, a vantaggio di una minoranza di etnia bianca detenente il potere, rimasta in vigore sino al 1991; il degrado in cui sono lasciati vivere ancora adesso i nativi americani in quanto culturalmente “diversi” dal modus vivendi omologante e consumistico della maggioranza; lo sfruttamento di minoranze indigenti, di bambini, di immigrati, nell’interesse di pochi o di rispettabili holding. Sono solo alcune delle tristi vicende che si alimentano della disparità di considerazione tra esseri umani.

In quanto appartenente al genere, non mi posso esimere qui, dal parlare della condizione femminile.
Le donne sono state da sempre considerate inferiori agli uomini.

Il tipo di società patriarcale, che si è imposto nel tempo, ha unilateralmente eletto il sesso maschile ad egemone nella gerarchia valoriale delle comunità, sottomettendo le donne al volere di padri e mariti, spesso privandole della possibilità di decidere per loro stesse ed emanciparsi se rimanevano sole. San Agostino si chiedeva persino se avessero o meno un’anima.

In questo scenario solo con molte difficoltà, solo nel passato recente e nel contesto occidentale, l’universo femminile è riuscito a ritagliarsi spazi congrui e a rivendicare con esito positivo i propri diritti.

Lottando e andando incontro a sofferenze e umiliazioni, con una notevole forza d’animo, “l’altra metà del cielo”, durante gli ultimi due secoli, ha con determinazione rivendicato il proprio ruolo centrale e imprescindibile nell’arricchimento e nell’evoluzione della specie umana. Ricordiamo che il voto per le donne italiane è stata una conquista che risale solamente al 1945. Una data molto, troppo vicina a noi.

La feroce e numerosa conta dei maltrattamenti in famiglia, delle percosse, dei femminicidi, poi, sottolinea come tutt’ora sia con la brutalità che una porzione ragguardevole della controparte maschile, ancora poco incline ad accettare la piena autonomia delle donne, decida di dirimere controversie e richieste di esercitare il diritto di libero arbitrio da parte di mogli e compagne.
Altra evoluzione ha avuto invece la discriminazione verso chi abbia orientamenti sessuali diversi dal senso comune consentito e generalmente assunto.

Se nel mondo antico, tra i greci, i romani e nel contesto arabo l’omosessualità, soprattutto maschile, era accettata e considerata in qualche modo “abituale” nei comportamenti privati, con il diffondersi della concezione della vita giudaico-cristiana, si è assistito ad una crescente colpevolizzazione degli atteggiamenti sessuali dissimili dal rapporto canonico uomo-donna, finalizzato alla procreazione.

Anche l’emancipazione della propria libertà di scegliere chi amare, ha conosciuto e conosce derisione, ostracismo e violenza da coloro che, sentendosi “normali”, non sopportino atteggiamenti e preferenze sessuali differenti, considerate scandalose o offensive della morale comune.

Un odio viscerale, alimentato da un assurdo preconcetto senza una logica ragione valida.

Vorrei soffermarmi, in ultimo, su un mesto aspetto discriminatorio che ci tocca ora da vicino. Nell’estenuante lotta al famigerato Covid 19, spesso abbiamo sentito come nelle terapie intensive degli ospedali, intasate dai ricoveri, i medici siano costretti ad effettuare penose valutazioni riguardo a chi curare e chi lasciare al proprio destino. Qui le discriminanti sono l’età e la condizione fisica. Sappiamo che sono angoscianti scelte, certamente non intraprese a cuor leggero, che vorremmo però, non fossero necessarie e che ci lasciano comunque l’amaro in bocca.

Concludendo: il sentirsi discriminati genera rancori, rabbia e desiderio di rivalsa e di conseguenza alimenta la violenza, l’insofferenza e la ribellione verso regole imposte che non si condividono e si reputano infami. Un serpente che si morde la coda, quindi.

Un muro contro muro di difficile soluzione se non cambiando radicalmente la percezione sociale ed elaborando un concetto di non facile attuazione, ma di sostanziale importanza: la tolleranza.
Certo tutti noi ci indigniamo quando ci capita di sentire notizie di poliziotti americani che per un banale controllo arrivano persino ad uccidere persone di colore. Ci commuoviamo di fronte a fotografie di bimbi in condizioni miserevoli nei fatiscenti campi di accoglienza di profughi nel sud del mondo e non solo.

Restano però, solo immagini, attimi fugaci dispersi tra le miriadi di impulsi e comunicazioni che ci vengono propinate quotidianamente dal bombardamento mediatico. Lontani echi di ingiustizie, di deprivazioni, di morte che ci toccano solo momentaneamente e si perdono poi, nei meandri dei personali affanni delle nostre vite.

Eppure, più o meno consciamente, ognuno di noi perpetra la sua anche piccola discriminazione verso categorie, singoli individui, o chi abbia opinioni diverse. Un minuscolo tarlo che affonda le sue radici nelle nostre paure e insicurezze.

In questo primo accenno del terzo millennio, purtroppo ancora non siamo abbastanza maturi per riuscire a riconoscerci quali realmente siamo: una sola moltitudine.

 

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