Film da vedere (o rivedere): ‘Deserto Rosso’, diretto da Michelangelo Antonioni. Con la splendida Monica Vitti

di Luca Biscontini

Deserto rosso è  un film del 1964 diretto da Michelangelo Antonioni.

Si tratta del nono lungometraggio di Antonioni, il primo a colori. Inizialmente doveva intitolarsi Celeste e verde. È la prima collaborazione con Carlo Di Palma come direttore della fotografia e l’ottava ed ultima con Giovanni Fusco come autore della colonna sonora.

Prodotto da Tonino Cervi e Angelo Rizzoli, scritto e sceneggiato da Michelangelo Antonioni e Tonino Guerra, con la fotografia di Carlo Di Palma, il montaggio di Eraldo Da Roma, le scenografie di Piero Poletto, i costumi di Gitt Magrini e le musiche di Giovanni Fusco, Cecilia Fusco, Carlo Savina e Vittorio Gelmetti. Deserto rosso è interpretato da Monica Vitti, Richard Harris, Carlo Chionetti, Xenia Valderi, Rita Renoir, Aldo Grotti, Lili Rheims, Valerio Bartoleschi. Leone d’oro al Festival di Venezia del 1964.

Trama
La vita di Giuliana, giovane moglie di un ingegnere, potrebbe scorrere senza problemi, ma la donna non è felice. A causa dello shock subìto in un incidente d’auto, è vittima di una crisi depressiva ed è tentata dall’idea del suicidio. Incontra Corrado e ne diviene l’amante, ma questo non basta a guarirla.

Pier Paolo Pasolini su Deserto rosso

“Ecco: io ero molto, come si dice, prevenuto, contro il Deserto rosso. Dall’interno e dall’esterno. Interno: mi era piaciuta assai poco La notte, e mi era parso detestabile L’Eclisse. In queste opere c’erano a mio avviso due contenuti: uno formalistico (cioè la stessa forma come contenuto) e uno pretestuale ( i problemi della società moderna a un livello avanzato), estranei l’uno all’altro.

Sicché il primo veniva ridotto dal secondo a un’esercitazione stilistico priva di cultura, estetizzante come poteva esserlo in un documentarista degli anni Trenta: e il secondo veniva ridotto dal primo a una problematicità generica e inattendibile.

Così il contenuto formalistico mi pareva un sottoprodotto provinciale della cultura francese; e il contenuto sociale sostanzialmente dilettantesco.

Il mio giudizio su questi film prima di vedere il Deserto rosso non era mutato ed era confermato dai giudizi degli altri, sia quelli favorevoli che sfavorevoli. Credevo insomma che il dualismo su cui accennavo si fosse aggravato nel nuovo film. Se non altro per consunzione dell’ispirazione: pensavo cioè che il formalismo, col colore, fosse divenuto ancor più formalistico, applicandosi come una crosta estranea sopra il pretesto sociologico esausto dell’alienazione. Mi sbagliavo. Ho visto finalmente il Deserto rosso e mi è sembrato un bellissimo film. Ci sarà stata anche in me una disposizione soggettiva favorevole. Per esempio, sono entrato nella sala parigina (altro elemento favorevole) sapendo già che il dialogo non mi sarebbe piaciuto (quel tanto di goffo, imbarazzante e un po’ ridicolo, che trova riscontro solo in certi endecasillabi di Quasimodo…) e perciò ero disposto a tacitarlo, a non eccepirlo, ecc, ecc.

Credo però che non giochino elementi passionali di nessun genere nel mio giudizio generale. Tanto è vero che non vorrei soffermarmi sui punti “poetici” del film, e ce ne sono molti, e convincenti. Per esempio, quei due o tre fiori violetti sfuocati in primo piano, nell’inquadratura in cui i due protagonisti entrano nella casa dell’operaio nevrotico. E quegli stessi due o tre fiori violetti, che compaiono sullo sfondo – non più sfocati, ma, assurdamente, nitidi – nell’inquadratura dell’uscita. Oppure la sequenza del sogno; improvvisamente – dopo tanta squisitezza coloristica – concepita quasi in technicolor, così come può concepire una spiaggia favolosa un bambino che ha visto cose analoghe nei film fumettistici su Haiti e le Hawaii (ma un’inquadratura, ripresa credo con un 300, obiettivo documentaristico e quindi realistico – del vascello sul mare increspato – che contraddice la sequenza nel suo cuore: gli dà un palpito inquietante di verità, che ne incrina la superficie squisitamente fumettistica). Oppure la sequenza della preparazione del viaggio in Patagonia: gli operai che ascoltano, ecc: quello stupendo primo piano di un operaio struggentemente “vero”, seguito da un’assurda panoramica lungo una striscia blu sulla parete di calce bianca del magazzino.

C’è una profonda, misteriosa, a tratti altissima intensità, nel formalismo che accende la fantasia di Antonioni.

E che la base del film sia totalmente questo formalismo, finalmente rigoroso e condotto fino alla poesia lo dimostra un’occhiata al montaggio: in cui si rivelano la preminenza assoluta del mondo come spettacolo estetico sulla storia e sui personaggi. Queste due operazioni sono:

I) L’accostamento successivo di due punti di vista di diversità insignificante su una stessa immagine: cioè il succedersi di due inquadrature che rappresentano la stessa situazione, prima da vicino, poi un po’ più da lontano, o prima frontalmente e poi un po’ obliquamente; oppure addirittura sullo stesso asse ma con due obiettivi diversi. Ne nasce l’insistenza che si fa ossessione, in quanto al mito della sostanziale e angosciosa bellezza autonoma delle cose.

II) La tecnica nel far entrare e uscire i personaggi dell’inquadratura, per cui, in modo talvolta addirittura ossessivo, il montaggio consiste in una serie di “quadri” che dire informali, dove entrano i personaggi, dicono e fanno qualcosa, e poi escono, lasciando di nuovo il quadro alla sua pura, assoluta informalità; cui succede un altro quadro analogo, dove i personaggi entrano ecc. Sicché il mondo si presenta come una mistica bellezza pittorica, che i personaggi invadono, è vero, ma adattando se stessi a quella bellezza, anziché sconsacrala con la loro presenza storica.

Il montaggio dunque dimostra di per sé chiaramente la prevalenza in questo film di un ossessivo mito formalistico, finalmente liberato, e quindi poetico. Ma come è stata possibile a Antonioni questa “liberazione”? È stata possibile creando la “condizione stilistica” di quello che nei romanzi si chiama il “discorso libero indiretto”, e che nei film si potrebbe per analogia chiamare “visione libera indiretta”. L’autore vede cioè il mondo attraverso gli occhi del suo personaggio. Al discorso diretto corrisponde, in cinema, la cosiddetta “soggettiva”; la macchina da presa si sostituisce cioè “materialmente” agli occhi del personaggio.

Nel Deserto rosso Antonioni non appiccica più, come aveva fatto nei film precedenti, la sua visione del mondo a un contenuto vagamente sociologico (la nevrosi da alienazione). Guarda il mondo attraverso gli occhi di una malata (l’incidente automobilistico credo non sia stato casuale: ma è stato probabilmente un tentativo di suicidio della donna). Attraverso questo meccanismo stilistico, Antonioni ha liberato se stesso. Ha potuto finalmente vedere il mondo coi “suoi” occhi, perché ha identificato la sua visione delirante di estetismo, con la visione di una nevrotica. Tale identificazione è in parte arbitraria, è vero, ma l’arbitrarietà in questo caso fa parte della libertà poetica: una volta trovato il meccanismo liberatorio, il poeta può inebriarsi di libertà. Non importa se è illecito far coincidere i “quadri” con cui il mondo si presenta a un poeta nevrotico. Quel tanto che in questa operazione c’è di illecito diventa il fondiglio non poetico e non culturale del film; quel tanto che invece c’è di lecito è la sua “ebbrezza poetica”. L’importante è che ci sia una sostanziale possibilità di analogia tra la visione nevrotica di un poeta e quella del suo personaggio nevrotico. Non c’è dubbio che tale possibilità di analogia c’è. E la sua contraddittorietà è poi un fatto culturale, che anziché oggettivarsi nel personaggio, si oggettivizza nell’autore. Sicché appunto per la straordinaria riuscita formalistica non è stavolta nemmeno illecita e inattendibile l’impostazione del tema sociologico dell’alienazione”.

 

Luca Biscontini per MondoSpettacolo

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