La casa dei sogni

DI ORNELLA SUCCO

Benché mi faccia un vanto dell’essere una persona portata alla concretezza e al pragmatismo, devo confessare di essere una sognatrice ovvero una persona che, durante il sonno, vive un’altra vita nella dimensione psichica del sogno.

Lo so bene che, almeno in determinate fasi del sonno, tutti sognano ma, fin da bambina, ho avuto il dono o forse la sventura di ricordare gran parte delle cose che mi accadono in quella dimensione.

Il mio mondo onirico arriva ad assumere le sembianze di una realtà parallela, possiede punti di riferimento, luoghi e motivi ricorrenti tali da indurmi, nel bel mezzo di un sogno, a pensare: “Eccomi di nuovo in questo posto e in questa situazione, stiamo a vedere cosa accadrà questa volta.”

Sono ormai abituata a muovermi per le strade di un quartiere che potrebbe essere quello della mia infanzia ma che si differenzia da esso perché, mentre mancano alcuni edifici, ci sono piazze che non esistono nella realtà e giardini che si aprono all’interno di cortili sconosciuti.

Più passano gli anni e più aumenta la familiarità che ho con questi luoghi, tuttavia c’è una cosa che ancora mi turba dei miei sogni: il fatto che in molti di essi io mi ritrovo a muovermi in un’altra casa; una casa che non è questa nella quale viviamo da più di trent’anni e alla quale abbiamo legato la maggior parte dei nostri ricordi.

È un paradosso che non so spiegarmi, perché io amo queste stanze nelle quali il disordine continua a regnare indisturbato, queste stanze che tu condividi con me dopo aver faticosamente imparato ad ostentare indifferenza nei confronti dei cuscini del divano scivolati sul pavimento, delle coperte di lana e dei maglioni strategicamente disseminati su tutte le sedie disponibili e della posta che si accumula ciclicamente su un mobile dell’ingresso.

A volte, certo, mi accade di pensare che si potrebbe gestire diversamente il luogo in cui si abita. Molte delle case dei nostri amici sono, lo ammetto, esteticamente più gradevoli e sicuramente meglio organizzate.

Apprezzo sinceramente la capacità delle persone che sono in grado di eliminare mobili od oggetti divenuti ormai superflui; ammiro coloro che sono in grado di decidere quale tipo di stile intendono adottare per la propria abitazione e riescono ad applicarlo seriamente, senza farsi ricattare dall’assurda rete dei legami affettivi.

Tuttavia conosco i miei limiti e so che un ricordo lontano è sufficiente a bloccare ogni mia decisione quando si tratta di spostare la collocazione di un quadro o di un tappeto, figuriamoci quando sarebbe evidentemente necessario sostituire un vecchio mobile, magari ricevuto in dono da una persona amata che non c’è più.

Ma è bene che io smetta di divagare e mi appresti a parlarti, a cuore aperto, di quello che è il mio sogno ricorrente.
In sogno, vedi, io mi affaccio spesso ad un balcone ampio e soleggiato: un bel terrazzo che guarda su di un giardino interno ma dal quale si scorge un corso pieno di traffico limitato da una ferrovia che, ormai, esiste solo più nei miei ricordi.

Penso che tu abbia capito, io sogno sempre di ritornare a vivere in quella che fu la nostra prima casa, l’appartamentino in cui andammo a vivere appena sposati e nel quale trascorremmo sette lunghi anni felici.
Ricordo ancora fin nei minimi particolari la sera di febbraio in cui firmammo il contratto d’affitto, due camere e cucina al canone di 140.000 mila lire mensili più le spese.

C’era sembrato un miracolo ed eravamo andati a festeggiare l’avvenimento consumando un aperitivo in piedi, al banco di un bar di periferia perché erano anni nei quali ancora non si sapeva cos’erano le “aperIcene” o gli “happy hour” e, per avere due olive o due arachidi salate da sgranocchiare con il Martini, bisognava farne esplicitamente richiesta e ignorare il disappunto contrariato del barista, costretto ad allestire degli stuzzichini improvvisati.

Ma il barista di quella sera cascava male, perché del suo disappunto non saremmo neppure riusciti ad accorgercene, presi come eravamo dalla felicità di poter finalmente mettere su casa.

Nei mesi che seguirono dovremmo occuparci di un’interminabile sfilza di incombenze: prendere le misure, scegliere i mobili e la carta da parati, far lucidare pavimenti, decidere su questioni fondamentali e su sciocchezze complementari.

Su queste ultime naturalmente trovammo anche il modo di litigare perché è un dato di fatto: non litighiamo solo per le piccole cose, come se volessimo approfittarne per spezzare la monotonia del nostro pensare quasi all’unisono.

Dei nostri anni in corso Lione conservo, a livello razionale, mille ricordi che si sovrappongono in una confusione assoluta: risento il fischio del treno che superava lo scambio verso le tre del mattino, rivedo la notte in cui partimmo per la Bolivia chiudendo la porta sul lettino appena montato nel quale, al nostro ritorno, avrebbe dormito nostra figlia; percepisco il profumo intenso dei fiori delle sansevierie allineate sul davanzale della sala; rivedo la neve dell’inverno del 1986 che cadeva dai tetti e bloccava a tempo indefinito le auto sorprese all’addiaccio nei parcheggi su strada.

Sono tutti ricordi bellissimi, eppure non sono loro l’oggetto dei miei sogni, così come non lo è l’arredamento che avevamo scelto insieme ne alcun altro fatto particolare vissuto veramente all’interno di quelle mura.

Quel che io sogno è sempre la porta d’ingresso che si apre ed io che entro nell’alloggio vuoto, vuoto e semi buio così come lo vidi il giorno in cui riconsegnai le chiavi all’amministratore perché, finalmente, eravamo riusciti ad acquistare un appartamento di proprietà adeguato alle accresciute dimensioni della famiglia.

Ecco però che, nel sogno, io ritorno in quella casa e mi avvio verso il terrazzo dal lato del corso, guardo un paesaggio che non esiste più e realizzo che è passato tanto tempo. In quel momento preciso io “so di sognare” ma non voglio svegliarmi.

Penso a quante cose sono cambiate in questi ultimi quarant’anni: abbiamo conosciuto sofferenza e malattie, stanchezza e disillusioni, abbiamo perso per strada tante persone amate e abbiamo visto cambiare i nostri corpi e indebolirsi la nostra volontà e la nostra resistenza alle avversità.

Ci siamo piegati per non spezzarci e so che non potevamo fare altrimenti ma mi ostino nel tentativo di portare avanti il mio sogno perché voglio ritrovare la sensazione inebriante della giovinezza, degli anni in cui la vita ci stava quasi tutta davanti ed eravamo seriamente convinti che non esistesse ostacolo che non avremmo saputo superare, così come non c’era cosa che insieme non avremmo potuto fare.

Poi mi sveglio e, immancabilmente, mi accorgo che sono supergiù le tre di notte, proprio la stessa ora in cui un treno proveniente da chissà dove imboccava lo scambio di corso Mediterraneo e lanciava nella notte un lunghissimo fischio assordante.

Allora mi alzo e, al buio per non svegliarti, vado a tentoni fino al corridoio del disimpegno per proseguire in direzione della cucina.
Lì, finalmente, accendo la luce e mi verso un bicchier d’acqua oppure mi metto a sbucciare una mela mentre controllo le notizie dell’ultima ora sul televideo.

Accarezzo la panca di legno della nostra cucina e guardo le tante, troppe, cose appese ai muri. Sospiro un po’ e provo a pensare se non varrebbe la pena di rinnovare tutto quanto comprando mobili più moderni, eliminando le suppellettili inutili e riuscendo finalmente a inserire quella lavastoviglie che tu sogni da quarant’anni ma, mentre mi perdo in queste fantasticherie, provo la stessa sensazione di quando all’interno di un sogno affiora la consapevolezza che si sta sognando.

Non so se riuscirò a cambiare mai nulla di queste stanze, perché qui ogni oggetto, ogni immobile, ogni quadro, vorrei quasi dire ogni chiodo piantato nel muro, racconta la storia della nostra vita insieme.

Mi decido allora a ritornare a letto, appoggio la mia mano sinistra sul tuo cuore per ascoltarne il battito, poi chiudo gli occhi e mi chiedo se, prima che faccia mattina, tornerò ad affacciarmi a quel balcone di un altro tempo e di un’altra casa.

Ciò nondimeno la questione mi sembra ormai priva di importanza e mi lascio scivolare nel sonno serenamente perché sono consapevole che, mentre le case fatte di muri possono cambiare e trasformarsi nel tempo e nella memoria, quel che conta davvero è continuare a rendere abitabile il nostro cuore.
La casa siamo noi.

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