Lino Banfi, i suoi ottantacinque anni, una storia di conquiste e successi ottenuti nel tempo

DI GIOVANNI BOGANI

 

ROMA. “Sono tanti ottantacinque. Sono lunghi anche da pronunciare: ot-tanta-cinque. Ma come si fa? L’ho già detto altre volte, sono arrivato quasi al novantesimo. Poi, se avrò fortuna, farò i supplementari e magari anche i rigori. Ho vissuto tanto, ma se dovesse finire adesso mi dispiacerebbe, perché non ho fatto in tempo a fare tante cose”.

Lino Banfi ci risponde al telefono, e si racconta con semplicità, quasi con candore. Racconta i suoi ottantacinque anni: li compie oggi, anche se l’anagrafe segna un’altra data di nascita, l’11 luglio del 1936. All’epoca si usava così: si segnavano le nascite con qualche giorno di ritardo. Portava bene, dicevano. E infatti ha portato bene a Pasqualino Zagaria. Futuro seminarista pentito, parcheggiatore abusivo, ventenne poverissimo che dormiva nelle stazioni, sempre inseguendo il sogno di fare l’attore. E poi, nel cinema degli anni ’70, professore, preside, medico, marito, amante, allenatore nel pallone.

Lino, come si vede oggi? Che bilancio fa della sua vita?
“Io non mi vedo più. Non mi guardo più, perché non mi piaccio più da trent’anni. Sono ingrassato, sono imbruttito. Ero un bel ragazzo, una volta. Per fortuna mi sembra ancora di capire qualcosa. Mi sarò dato duemila botte in testa: il mio dottore dice che con quelle botte in testa ho stimolato i lobi frontali del cervello, e l’ho mantenuto vivo…”.

La cosa di cui è più orgoglioso?
“Il fatto che tre generazioni di italiani mi abbiano voluto bene, e continuino a volermene. E forse arriva anche la quarta, se riesco a stare in questo mondo”.

Qual è il segreto di tanto affetto?
“Le persone mi vedono come uno di loro, non come un ‘attore’. io sono uno che dice le cose con semplicità. E forse l’unico trucco è proprio questo”.

La storia della sua vita è anche una storia di riscatto, di conquiste ottenute piano piano. Come inizia il racconto della sua vita?
“Mio padre era un contadino, un uomo buono e altruista, ma non certo uno troppo portato a capire le ragioni di un ragazzo che vuol fare l’attore. Va bene, vuoi fare l’attore, mi diceva. Ma come professione, che cosa vuoi fare? E io: l’attore, papà! Non riusciva a capire”.

Così si trovò a sparire letteralmente di casa, per seguire compagnie di spettacolo…
“Sì, seguivo le compagnie di varietà, e finivo ad Ancona, o a Rimini. Mio padre chiamava i carabinieri, preoccupatissimo. Ma alla fine si è arreso a questo sogno folle di suo figlio”.

Ha vissuto anche momenti di precarietà estrema?
“Diciamo pure di povertà assoluta. Dormivo nelle stazioni ferroviarie, nei palazzi in costruzione”.

Era difficile mettere insieme il pranzo con la cena, come si dice.
“Era già difficile mettere insieme un pasto al giorno! Ero campione olimpionico di salto del pasto, specialità omologata dal comitato olimpico”.

Che cosa ricorda di quegli anni in certo modo eroici?
“I ristoranti. Quei pochi nei quali riuscivamo ad andare. Ricordo un ristorante a Firenze, si scendevano degli scalini e si finiva in una grande sala. C’era da una parte Wanda Osiris con le sue ballerine, avevano finito lo spettacolo anche loro. Ricordo un piatto di fagioli all’uccelletto abbondanti, una zuppa con il peperoncino: mi sentivo in Paradiso”.

Che cosa le hanno insegnato gli anni dell’avanspettacolo?
“L’umiltà e la generosità. Non avere una lira in tasca ti spinge a diventare altruista: impari a dividere tutto con i disgraziati come te”.

Fu accolto, poi, da Franco e Ciccio. Ed ebbe un ruolo anche nel film che i due comici fecero con Buster Keaton, arrivato alla fine della sua carriera, “Due Marines e un generale”.
“Non so come fecero a convincere Buster Keaton a fare quella partecipazione. Non diceva niente per tutto il film, soltanto alla fine si voltava e diceva ‘Thank you!’, grazie. Ecco, quella fu la prima volta in cui lavorai accanto a una leggenda”.

Il momento più felice della sua vita?
“Il matrimonio con mia moglie Lucia. Fummo costretti a celebrarlo di nascosto, perché avevamo fatto la famosa ‘fuitina’, eravamo scappati di casa. La amo oggi come la amavo allora”.

Quanti anni avevate, quando vi incontraste?
“Io ero vecchio: avevo ben quindici anni. E lei tredici. A me piacque immediatamente; anche lei, però, mi trovò carino. Da giovane sono stato carino anch’io. Non bello, questo no. Ma con tutti i capelli in testa non ero male: ho fatto anche dei fotoromanzi!”.

Che cosa dice sua moglie della sua carriera?
“Beh, quando vede che mi chiamano i giornalisti dice: ‘Vedi, Lino, stai facendo ancora una bella carriera…”.

Negli anni ’70 ha interpretato una serie infinita di film con Edwige Fenech, Gloria Guida, Nadia Cassini. Film con insegnanti, liceali, soldatesse, infermiere. Che ricordi ne ha?
“Fu un momento, a suo modo, glorioso. Tanti film che celebravano un erotismo che oggi sarebbe infantile, ingenuo: ‘L’insegnante va in collegio’, ‘La liceale nella classe dei ripetenti’… Spesso erano film ambientati nella scuola. E io, film dopo film, ho fatto carriera!”.

Nel senso che aveva ruoli sempre più importanti?
“No, nel senso che ho cominciato interpretando un bidello, poi vari insegnanti, e ho finito a fare il preside. Ancora un film e diventavo Ministro dell’istruzione!”.

E’ rimasto amico con Edwige Fenech e con Gloria Guida?
“Molto: con Edwige ci sentiamo spesso, anche se lei vive all’estero da anni. E con Gloria sono una specie di zio, perché sono amico di Johnny Dorelli. Una volta Gloria mi fece ridere. Mi disse: ‘Li chiamano ‘sporchi’, quei film che abbiamo fatto. Ma se facevamo quattro docce al giorno!’. Avrei voluto rubarle la battuta. Ma è sua”.

Passando a cose più “serie”, quale rapporto ha con la fede? Ha un passato da seminarista. Ha conservato il rapporto con la religione?
“Sì, ho una profonda religiosità mia: in chiesa non vado spesso, ma lo faccio per non disturbare. Se la gente vede me, si distrae dall’unica cosa importante, in quel momento lì: il rapporto con Dio”.

Una cosa, al di fuori del cinema, di cui è orgoglioso?
“L’impegno come ambasciatore dell’Unicef. Sono stato molte volte in Africa, e qualche volta sono riuscito a vedere dei bambini sorridere. Un giorno ho visto dei bambini angolani sotto un temporale, che coprivano dalla pioggia un braccio. Era il braccio che teneva i quaderni, i quaderni che permettevano loro di imparare, di integrarsi, di costruire un futuro”.

Un pensiero, ovviamente, alla Nazionale di calcio. Che ha festeggiato il primo goal di questo incredibile Europeo con quel “porca puttèna” gridato da Ciro Immobile…
“Era un gioco, un videomessaggio mandato al mio amico Giorgione Chiellini, il ministro della Difesa della Nazionale italiana. Gli avevo detto che avrebbe segnato Ciro Immobile, e che avrebbe dovuto gridare ‘porca puttèna!’…”.

È andata incredibilmente così. E adesso c’è la finale.
“E io ho un sogno. Domenica è il giorno ‘ufficiale’ del mio compleanno. Fin dall’inizio sognavo che la Nazionale mi regalasse un splendida partita in finale, e che la regalasse a tutti gli italiani. Adesso questo regalo possono farcelo davvero. Sarebbe un sogno meraviglioso. E un bel modo di abbracciare tutti insieme Spinazzola, ragazzo eccezionale, tanto bravo quanto sfortunato”.

 

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