L’olivo di Cuglieri, metronomo della nostra stolta esistenza, è morto. O forse no

di Vincenzo Soddu

Tucidide affermava che gli uomini uscirono davvero dalla barbarie quando impararono ad apprezzare i frutti dell’olivo, coltivandolo, insieme alla vite.

La coltivazione dell’olivo, rimasta antica e immutata, dunque ancestrale.

Allora come oggi, infatti, il contadino ara tutt’intorno alla pianta, costituendo una vera e propria fossa, per ricevere la pioggia, e, come in un abbraccio, le olive che cadono a terra dai rami più alti. Tucidide. D’altronde il mito esaltava la sua tesi.

È Atena che dona per prima ai suoi protetti una pianta d’olivo, e da allora l’olivo è sempre stato la ricchezza delle terre che si affacciano sul Mediterraneo. Dal primo aratro fatto di due esili rami di olivo alle fascine dell’albero, insostituibili per cuocere le minestre nelle case d’inverno. E poi le cavità degli olivi più grandi, covi ideali di banditi e bambini.

Gli olivi più grandi. Quello di sa Tanca Manna aveva un fusto della circonferenza di dieci metri, ricco di nodi e spaccature che sembravano rughe sul viso di un saggio anziano. Era poco più giovane dei suoi fratelli di Luras, i più antichi d’Europa. E come un anziano suscitava sensazioni diverse e profonde, come il rispetto e la pazienza, suggeriva la piccolezza della nostra esistenza.

L’olivo di sa Tanca Manna era alto sedici metri e aveva quasi l’età degli antichi Greci. I Greci, sempre loro, che, più di duemila anni fa, avevano decretato la morte per chi avesse reciso un albero d’olivo pubblico o privato.

L’olivo di Cuglieri, metronomo della nostra stolta esistenza, è morto, o forse no. Speriamo, perché ne abbiamo ancora bisogno.

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