Mobbing sul lavoro: cos’è e come tutelarsi

Mobbing sul lavoro: cos’è e come tutelarsi

Quante volte si è sentito parlare di vessazioni ai danni di lavoratori dipendenti negli ambienti di lavoro?

Esse possono essere di diverso tipo: costringere un dipendente a svolgere lavori per i quali le sue competenze non sono affatto richieste (es.: andare a prendere il caffè al bar per il proprio superiore tutte le mattine), riprenderlo costantemente in pubblico, sottolineando le sue scarse qualità professionali (magari senza alcun fondamento di verità), minacciare il trasferimento verso sedi disagiate, trovare errori e/o mancanze nel suo operato, al solo scopo di frustrarlo e costringerlo alle dimissioni o, in generale, tutte le iniziative idonee a rendere l’ambiente lavorativo un vero e proprio inferno in terra.

Tali condotte sono senza ombra di dubbio qualificabili come “mobbing lavorativo”.

Esso si configura, dal punto di vista oggettivo, come una “pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro” e, da quello soggettivo, come “intendimento persecutorio del datore medesimo” (Cass. n. 31273/2020). In altre parole, occorre un atteggiamento oggettivamente persecutorio nei confronti del dipendente, da parte di un datore di lavoro pienamente consapevole di ciò. Può, tale condotta, configurare un reato?

La risposta, come a breve si vedrà, è positiva. In ipotesi, infatti, un comportamento ostile nei confronti di un dipendente, che si protragga nel tempo e che arrivi ad inficiare sulla serenità del medesimo in ambiente lavorativo, potrebbe configurare il reato di “stalking” o, meglio, di atti persecutori, ai sensi dell’art. 612 bis c.p.

Tale reato punisce chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno, in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Occorre, pertanto, che la condotta persecutoria del datore di lavoro sia reiterata nel tempo, che vada a generare uno stato di ansia o di timore, tale da costringere il dipendente a modificare le proprie abitudini di vita. Dello stesso avviso la Suprema Corte, che si è espressa in merito con una recentissima sentenza, parlando, nello specifico, di “reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro” (Cass. n. 31273/2020).

In sostanza, ogni volta che si analizzi una condotta identificabile come “mobbing lavorativo” occorre verificare, ai fini della qualificazione della medesima come reato di atti persecutori, la sua durata temporale, la sua natura oggettivamente persecutoria, nonché i riflessi sulla salute psico-fisica del dipendente.

Qualora tali elementi sussistano, sarà possibile assimilare il caso concreto alla fattispecie astratta di cui all’art. 612 bis c.p., con tutto ciò che ne comporta sul piano sanzionatorio.

Riferimenti normativi: art. 612 c.p.; Cass. n. 31273/2020. (FONTE : L’Angolo del Diritto Penale)

*Immagine Pixabay

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