René Magritte, L’impero delle luci

DI ILARIA PULLE’DI SAN FLORIAN

…Ebbene, com’è il sospiro per Morgenstern? ‘Un sospiro, una notte, pattinando / sul fossato gelato di città / specchiarvisi vedea, d’amor sognando, / nival chiarore di case di città. / / Il sospiro pensando alla sua dama, / ristette a un tratto e tutto s’infiammò: / onde scioltasi sotto di lui, la lama / di ghiaccio in un crepaccio l’ingoiò.’

Ecco il sospiro che, da aspirazione, desiderio, emozione, sentimento, diventa una specie di sasso, di cosa, di oggetto, che sta da solo, si materializza come in un quadro di Magritte, e improvvisamente precipita in un crepaccio. – Vittorio Sgarbi, Lezioni private 2

Magritte è esattamente questo: il crepaccio che si apre all’improvviso quando meno te l’aspetti; il sogno, l’incubo latente che attende in agguato e approfitta del momento più inaspettato, talvolta subdolo, per rivelarsi, conducendo l’immagine ad una dimensione onirica tendenzialmente inquieta, la cui origine, anziché da ricercare entro contesti potenzialmente forieri di turbate sensazioni, si concentra su situazioni attinenti ad una prevedibile quotidianità.

L’indiscutibile meticolosità di una resa immaginifica, portata attraverso la realtà e restituita agli occhi dell’osservatore al termine di un percorso di assurdi accostamenti, questi ultimi tuttavia non sempre necessari.

L’impero delle luci, non è Golconda – non vi sono stravaganti uomini in bombetta a popolare il cielo – e non è Il doppio segreto, la cui apparente, tranquilla levigatezza, maschera uno straordinario e inconsueto meccanismo formato da improbabili, illogici marchingegni: L’impero delle luci, è una scena assolutamente normale.

Una casa, forse un casolare elegante, di considerevoli dimensioni, costruito su tre piani, e una strada buia illuminata da un lampione, unico e solitario. Nient’altro, a parte un curioso cielo azzurro, decisamente in contrasto col lampione acceso, più adatto ad un’ora diurna piuttosto che a quelle notturne o crepuscolari che ne giustificherebbero l’accensione.

Eppure è inquietante ed è fuor di dubbio che lo sia, in apparenza senza alcuna ragione determinante, ma tale allo stesso modo in cui un sentimento del genere riesce a pervadere l’animo di chi si pone al cospetto della pittura metafisica: l’evidente precisione di una resa fotografica che pare aver catturato e fissato un istante illusoriamente banale, al contrario connotato da un imprecisato, ingannevole significato.

Quell’immagine sta davanti a noi ci osserva; ci scruta, capovolgendo il consueto punto di vista per proporne un altro destabilizzante e incomprensibile, secondo le intenzioni di un artista in grado di volgere la figura letteraria di un ossimoro entro uno stato di cose incidentalmente sovvertito.

Indipendentemente da tempo e atmosfere, il dipinto mostra la coscienza di una situazione inversa e per questo avversa; precaria e sconcertante, nell’ottica di una possibile interpretazione semplice – secondo alcuni si limita a ritrarre ‘la placida calma di Rue de Essenghem’, nei pressi di Bruxelles, in cui Magritte abitualmente dimorava – o infidamente in attesa di scoprirsi.

Quest’ultima interpretazione deve aver colpito il regista William Friedkin, il quale, nel 1973, si ispira a L’impero delle luci per la locandina del film L’esorcista.

La scena in questione, poi ripresa nella pellicola con il sottofondo del brano Tubular bells, di Mike Oldfield, rimane una delle più riuscite della cinematografia horror…

René Magritte (1898-1967), L’impero delle luci, 1953/1954, olio su tela, 195.4×131.2 cm., Peggy Guggenheim Collection – Venezia
Immagine: web

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