Teac 2340, un sogno da realizzare

DI GIOVANNI BOGANI

 

Ne hai sbagliate, di cose.

Hai sbagliato, come sbagliano tutte le madri che hanno in casa un alieno, un Ufo, un essere non identificato, un figlio adolescente di cui non comprendono i pensieri, le reazioni, le paure. I bisogni immensi.

Hai sbagliato a non chiedermi niente. Ma non deve essere facile parlare con un ragazzo che sta dietro la tenda chiusa dei suoi capelli, sempre nella sua stanza a suonare quella chitarra. E hai sbagliato a non chiederti se ci fosse qualcosa in quella musica.

Un pomeriggio, dopo quegli otto mesi di lavoro fra gli scaffali della libreria, ti dissi che avrei voluto comprare un registratore speciale.

Un registratore a quattro piste.

Io volevo comporre le canzoni e inciderle da solo, come se fosse un disco. Vent’anni prima, i Beatles le avevano registrate su un registratore come quello, le loro canzoni. E io, ingenuo, avevo imparato a suonare un po’ di strumenti, tutti male: il pianoforte, il basso, il sassofono, il flauto, persino il violino. Avevo creato degli arrangiamenti, e volevo registrare le canzoni che scrivevo.

Mi serviva quel registratore, per sentire il basso e suonare la chitarra, per sentire tutti e due e suonare il sax, per sentire tutti e tre e cantare. Non esistevano i programmi di montaggio al computer. Esistevano solo i nastri, le bobine, e quei catafalchi che pesavano quintali, che costavano tanto. Ne avevo trovato uno che costava quasi poco.

Era un Teac, un registratore a bobine. Un grosso mobile di legno con quattro finestrine gialle con delle lancette.

In ognuno di quegli occhi gialli potevi vedere, segnato da una lancetta, il suono di uno strumento. Il pianoforte, la chitarra, la tua voce. E potevi registrare fino a mille milioni di volte, finché non veniva bene. Ancora oggi, quei registratori costano ottocento, mille euro. Ne trovai uno che costava cinquecentomila lire.

Non ti chiesi i soldi. Ti chiesi il permesso di usare i miei, quelli che avevo guadagnato vendendo libri scolastici, e spostando migliaia di copie del “Nome della rosa” di Umberto Eco, e di “1984” di George Orwell. Volevo solo la tua approvazione, il tuo sostegno. Solo quello.

Volevo che tu mi dicessi “sei un cretino, ma se vuoi prova, butta via i tuoi soldi in quel modo. Sbattici la testa, prova a fare i tuoi capolavori e poi fra vent’anni ci riderai sopra”. Che tu mi dicessi “Ma di cosa parlano le tue canzoni? Ma di che cosa parlano?”. Che mi sorprendessi, dicendo “Le ho sentite: credi che in corridoio non si sentano?”.

E mi sorprendesti davvero.

Immagine tratta dal web

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