Yari Selvetella, Vite mie

DI MARIO MESSINA

Yari Selvetella,
Vite mie.
Mondadori

<<Sei la condanna e la cura>> canta Rose Villain in una hit del momento.
È in questa ottica che sembra possa esser letto il rapporto di Claudio Prizio con la compagna defunta.
Un narratore che esordisce in maniera lapidaria: <<non so più amare, chiedo perdono a tutti (pag. 7)>>.

Un incipit che lascia intendere una situazione di forte disagio esistenziale.
Non a caso, così prosegue: <<fatico a capire dove e con chi vorrei essere e a fare cosa (pag.8)>>.
Un evento traumatico ha lasciato, di certo, i suoi strascichi.
Il protagonista, narrando in prima persona, vive una dimensione tale da fluttuare fra “più vite”.
Agisce ma si muove all’ interno di una serie di “non ricordo”, “mi pare”, “probabile” (si vedano le pagine 13-18, ad esempio).

Starà vivendo il passato o il presente Claudio Prizio? Le sue certezze sembran crollate.
I fantasmi cominciano a popolare, così, una esistenza scandita da una fitta agenda in cui il quotidiano assume le vesti di un’ancora di salvezza.
Una routine, forse fin troppo minuziosamente descritta, in cui il protagonista si rifugia per rimuovere il trauma della morte. Del grande amore.
Quello con cui ha iniziato a far progetti di vita o di viaggio.

In questa dimensione esistenziale il tempo dedicato alla sigaretta diventa un rito, una evasione per osservare il mondo e riflettere in silenzio.
<<Il vantaggio di una sola sigaretta, alla sera, prima di andare a letto, è che produce un lievissimo stordimento, anche dopo anni lo stesso minuscolo balzo del cuore, la stessa vertigine (pag.8)>>.

Gestire una composita famiglia può occupare la mente ma non lenire il malessere.
Bisogna, appunto, trovare qualcosa che funga da “cura”, come detto in apertura.
Non lo è Agata, la compagna attuale, rappresentante di un avaro presente fatto di frettolosi saluti scambiati in corsa nei pressi di una metro o coinvolta nella spasmodica ricerca di una nuova abitazione. Rigorosamente in centro.

Saranno, così, gli oggetti e i luoghi del passato ad indicare la via di uscita.
Elementi destinati ad assumere un valore simbolico e, come tali, latori di un grande compito: consegnare definitivamente all’ eternità questo grande amore.
Così che un capitolo possa chiudersi e una nuova vita possa schiudersi.
Non volendo svelare troppo al potenziale lettore mi vorrei concentrare su alcune considerazioni di carattere strettamente personale.

A livello stilistico l’elemento che maggiormente ho apprezzato va ritrovato nella punteggiatura.
Nella costruzione della frase o dei periodi.
Un testo chiaro, pulito.
Ho, così, piacevolmente ritrovato qualcosa ormai considerato in via di estinzione: l’ uso dei “due punti” e “del punto e virgola”.

A qualcuno sembrerà una considerazione banale ma la tendenza contemporanea (dettata dalla “frenesia social”) è quella di mettere un bel “punto” ovunque o di abbondare con le virgole rendendo infiniti i periodi.
Le numerose notazioni storiche su Roma e sui suoi scorci, inoltre, rimandano piacevolmente, con le dovute proporzioni, al celeberrimo testo di Corrado Augias “I segreti di roma”.

Si tratta, ovviamente, di un romanzo e non di un saggio ma in questo modo l’autore denota un atteggiamento non passivo rispetto alle bellezze storiche della città ormai date, da molti, per scontate e, come tali, banalizzate.
Un’ ultima valutazione che mi sento di fare è di natura sociologica e tende ad andare oltre il testo o la mera biografia del protagonista del romanzo.

Il libro sembra contenere parecchi elementi autobiografici e quasi sembra assumere, a mio modesto parere, il carattere di “manifesto” di una intera classe sociale: quella della borghesia progressista romana contemporanea.
Non c’ è nulla di piccolo borghese.
I quartieri, i luoghi degli acquisti, le scuole “giuste” da far frequentare ai figli, le mura aureliane di San Giovanni come le colonne d’Ercole.

Le origini borgatare sono menzionate con la stessa rapidità con cui sono quasi rinnegate.
<<Mi chiamo Claudio Prizio, ho quarantacinque anni. Sono nato in periferia, a Casal Bruciato […] (pag. 37)>>.
Il modo attraverso cui la borghesia progressista romana sembra voler affermare: <<vengo dal popolo, posso parlare di popolo>>.
Uno spirito popolare che, in realtà, si è perduto.
Nel testo come nella realtà di una intera classe sociale.
Ed è lo stesso motivo per cui la parola “rivoluzione” diventa un cimelio da gioventù.

Da relegare ai cortei studenteschi del passato.
In fondo, sto bene, faccio il progressista ma perché dovrei sognare la rivoluzione?
Datemi una casa a Via Tasso, come direbbe il protagonista del libro.
What else ?

Immagine tratta dal web

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