25 Novembre, giornata mondiale contro la violenza maschile sulle donne, ma si continua a morire

DI ANNA LISA MINUTILLO

Partiamo da qui, cifre che non sono solo numeri ma donne, persone, le loro storie, i loro ruoli.

– 95 Femminicidi in Italia nei primi 10 mesi dell’anno,
– 142 donne uccise nel 2018,
– 3.230 le donne ASSASSINATE dal 2000 ad oggi,
– 538.000 le donne che hanno subito violenza fisica o sessuale negli ultimi 5 anni,
– 1.546 ragazze minorenni STUPRATE negli ultimi 5 anni.
Ma se vogliamo vederci più chiaramente aggiungiamo che: in Italia, ogni giorno sono 88 le donne ad essere vittime di atti di violenza, una ogni 15 minuti. Le vittime sono italiane in altissima percentuale ( l’80,2 per cento dei casi) uccise da carnefici italiani nel 74 per cento dei casi. Il tutto senza distinzione di latitudine, poiché l’aumento di vittime di reato di sesso femminile è lo stesso in Piemonte come in Sicilia. Dati agghiaccianti, dati di cui di certo non si può essere fieri, forniti dalla Polizia di Stato.

Vogliamo aggiungere anche che 2355 di questi femminicidi, sono avvenuti tra le mura domestiche, per mano di mariti e compagni?
Altro elemento per cui provare solo disgusto, per non dire altro.

Inoltre il lockdown ha reso la convivenza tra le mura di casa difficile.

Il maschilista bastardo, non perde occasione per tortuare la sua preda preferita.

Che avvenga verbalmente, che si susseguano atti di violenza fisica, cadenzati da ciò che viene confusa con «normalità», poco conta.

Ciò che conta sono le ferite, i graffi nell’anima, la sensazione di isolamento totale, il diventare quasi trasparente per il mondo intero, le parole che dovrebbero consolare, sostituite con accuse ingiustificate, che spesso sono rivolte alle donne proprio da altre donne…

«donne» che diventano branco, pronto ad attaccare, a cibarsi del dolore altrui, forse per non guardare il loro, forse solo perché finiscono con l’assomigliare proprio a quelle feroci bestie che tanto non riescono a sopportare, chissà…

Nascere donna è diventato qualcosa che porta ad avere paura, qualcosa che viene fagocitata dal sessismo, dal finto rispetto, dalla barbarie a cui si assiste quotidianamente.
Prosegue la rassegna degli “amori malati”, della non certezza della pena, della sfrenata ipocrisia di cui abbiamo le tasche piene.

Pene lievi, che fanno inorridire ed autorizzano assassinii, il più delle volte annunciati.
Morti che vengono giustificate da quel “sottile” e neanche tanto, modo di pensare in cui risiede quel maledetto “se l’è cercata”, che non accenna a regredire.

Se qualcosa regredisce è il pensiero di quella politica dell’odio che tende a crocifiggere stranieri adducendo le responsabilità di queste uccisioni a loro, ma strizza sempre l’occhio nei confronti degli italiani “brave persone”, pur di non farli indignare perché questo primato di bestialità deve continuare ad appartenere loro.

Loro (i maschi italiani), quelli che si risentono quando altri fanno sulle “loro” donne ciò che a loro non viene concesso fare.
Così ci barcameniamo tra responsabilità demandate, tra falso perbenismo, tra silenzi e bugie pur di non vedere cosa siamo diventati.

Oppure prendiamo a cuore quanto avvenuto e titoliamo così:
“Omicidio a Partinico: uccide l’amante a coltellate, lei voleva rivelare la relazione alla moglie”
Si descrive in questo modo la morte di una giovane donna, che implorava per la sua vita e per quella del piccolo che aveva in grembo.

Questo ha fatto scatenare la furia omicida dell’imprenditore di Partinico.
A lui un ruolo ben sottolineato a lei, quello dell’amante peccaminosa, che viveva una relazione che si poteva evitare.

Tutti bravi a giudicare, tutti esperti in materia, tutti in grado di tenere a bada emozioni.
Intanto le donne muoiono così, come se nulla fosse, come se fosse niente.
Diventa niente la vita, quando si tratta di quella altrui, diventa niente quanto si è investito in quel rapporto, diventa niente anche la vita strappata, prima ancora di farla iniziare ad un feto.

 

Ana Maria Lacramioara Di Piazza è morta, è morta così come dichiarato dal suo assassino in caserma, perché voleva “estorcergli” 3000 euro.

Quindi diventa ” normale” che se “rompi le scatole” , se diventi un peso, qualcosa che può incrinare la stabilità di una vita basata sull’inganno, allora meriti di morire senza tanti complimenti, senza arrecare tanto fastidio, senza lamentarti, perché non servi più, sei diventata un ingombro pesante, qualcosa di cui doversi disfare.

Non importa a nessuno di chi fosse Ana, questa donna che va ad unirsi alle tante vittime, non importa sapere in cosa credesse, non importa dei suoi sogni, del bimbo che aspettava, e forse importa poco anche di quel corpo picchiato, accoltellato, perché ritenuta colpevole di aver alzato la testa, di aver osato non restare al suo posto, quello in cui l’aveva relegata chi di rispetto e pietà non sa che farsene.

Atti di guerra che devono assolutamente finire, che non si deve giustificare, che raccontano tutto lo squallore in cui siamo ingabbiate.
Difficile credere ancora nell’educazione sentimentale, quando non si vedono sentimenti ma solo mani che uccidono.

Sarà difficile fare andare meglio le cose fino a che si useranno le parole per dare giustificazioni agli assassini e “colpe”alle donne, sì perché le parole vanno usate correttamente, le parole uccidono ulteriormente anche dopo essere già state uccise fisicamente, le parole coprono quelle domande a cui le vittime non hanno saputo rispondere e quando hanno iniziato a porsele, come risposte hanno trovato la morte.

Trascorrono gli anni, riempiamo quotidiani con fatti atroci di cronaca, partecipiamo a dibattiti, manifestazioni, seguiamo trasmissioni televisive a tema, ma tutto sembra andare avanti, come se informazione, denunce, prese di posizione, venissero accoltellate anche loro per terminare la loro corsa nelle pozze lasciate dal sangue, quel sangue versato per aver cercato di riprendere in mano la vita.

Donne uccise come Lea Garofalo che il 24novembre del 2009 dopo essere stata rapita ha trovato la morte.

Lea era l’ex compagna di un boss della ‘ndrangheta, che aveva deciso di collaborare con lo Stato, e per questo dopo essere stata torturata, fu uccisa ed il suo corpo bruciato.

Lea è riconosciuta e ricordata come un simbolo della lotta contro la criminalità organizzata.
Prima di morire, le sue testimonianze servirono nelle indagini riguardo diversi membri del clan dei Cosco, anche per delitti contro altri parenti di lei, tra cui il fratello Floriano, boss rivale dei Cosco.

In occasione del funerale pubblico celebrato nel 2013, Denise Garofalo, figlia di Lea, scrisse di sua madre: “Ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione. Il suo funerale pubblico è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e gli uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per la propria dignità e per la giustizia di tutti”.

Si muore perché ci si ribella a qualcosa che non va, che è sbagliata.
Ma si muore anche e soprattutto perché si diventa temibili, perché non si devono denunciare irregolarità, che in troppi ignorano per timore di perdere poi gli agganci giusti, la possibilità di emergere in un settore, la tanto agognata realizzazione e non importa il prezzo che altri dovranno pagare, ciò che conta è emergere.

Si muore in ogni luogo del mondo, diventando notizia per qualche giorno, per essere quasi dimenticate dopo poco tempo.

Daniela Carrasco artista di strada cilena di 36 anni, alcune ore dopo essere stata fermata dai militari, è stata ritrovata impiccata ad un recinto ed esposta in un comune della città metropolitana di Santiago del Chile il 20 ottobre 2019.

Violentata e torturata fino alla morte per intimidire chi, soprattutto se donna, sta partecipando alle mobilitazioni di questi giorni in Cile. Per tenere alto il terrore.

Hevrin Khalaf segretaria generale del Partito Futuro siriano, si batteva per i diritti delle donne e per la coesistenza pacifica fra curdi, cristiano-siriaci e arabi ed era apprezzata da tutte le comunità. Assassinata il 13 ottobre 2019

Marielle Franco, politica, sociologa e attivista brasiliana, si batteva in difesa dei diritti umani contro la violenza della polizia nelle Favelas: assassinata a Rio il 14 marzo 2018

Susana Chávez Castillo poetessa e attivista messicana conosciuta come autrice dello slogan “Nunca más” (non una (morta) di più), usato dagli attivisti per manifestare contro il massacro delle donne di Juárez.
Fu trovata uccisa e mutilata il 6 gennaio 2011 a Cuauhtémoc.

Miriam Rodriguez Martinez madre di una ragazza rapita nel 2012 e ritrovata morta in una fossa comune, era conosciuta per aver investigato sulla scomparsa della figlia ed essere riuscita a far arrestare alcuni membri del cartello della droga degli Zetas, responsabili del sequestro.

Da allora, era diventata leader dell’organizzazione ‘Comunidad Ciudadana’ che cercava altri dispersi e denunciava i mandanti di questi omicidi.
Assassinata il 10 maggio 2017, giorno della festa della mamma.

Sempre in Cile,  avviene la morte della fotografa Albertina Martines Burgos, 38 anni, che lavorava per il canale televisivo Mega, importante testimone di quanto è accaduto in quel Paese.

Le circostanze del decesso non sono ancora chiare. Il corpo è stato trovato la notte del 21 novembre 2019 con segni di percosse e ferite da taglio. Gli investigatori, lo definiscono un «presunto omicidio». Sparite la macchina fotografica e il computer della donna dove  è stato salvato il materiale che documentava le azioni della polizia contro i manifestanti nell’ambito delle proteste che vedono sul banco degli accusati il governo di Sebastián Piñera.

Donne che hanno pagato con la vita il coraggio di ribellarsi, donne a cui tutti dovremmo essere grati per ciò che hanno fatto, per quanto ci hanno trasmesso, per la possibilità di comprendere anche l’incomprensibile.

Una lista interminabile di nomi, volti, storie, sorrisi spezzati, figli orfani, dolore, sangue.
Una lista che deve fermarsi, che non vogliamo più stilare, che non deve essere dimenticata né giustificata, con tiepidi segnali di redenzione a cui seguono esploit di rabbia furiosa che conducono alla morte donne, madri, sorelle, amiche.

Una “sfilata” di scarpe rosse che ormai non si riescono più a contare. Una sfilza di panchine rosse che riempiono angoli e strade delle città in cui viviamo. Una miriade di slogan che parlano di quanto tutto ciò nulla ha a che vedere con il trattamento che le donne dovrebbero ricevere e tanto meno con il loro riconoscimento.

Donne lasciate sole che cercano di sopravvivere ad una vita che invece va vissuta.
Sempre il solito timore, quello che l’attenzione resti alta solo per un giorno, che tutto diventi uno sterile parlare, che possa servire a poco.
Invece bisogna fare in modo che le donne uccise per mani di criminali che indossano la maschera di principi azzurri, non vengano dimenticate, che questo” essersela cercata” si stoppi definitivamente, che nessuno si possa permettere il lusso di usarle e gettarle via, come bambole accoltellate dimenticando così che dai loro corpi sgorga sangue.

È ora di smetterla con questa mattanza, è ora di prendere coscienza, è ora di comportarsi da uomini, già, uomini, quelli che si temono altro che da amare…

Anna Lisa Minutillo
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Pubblicato da Anna Lisa Minutillo

Blogger da oltre nove anni. Appassionata di scrittura e fotografia. Ama trattare temi in cui mette al centro le tematiche sociali con uno sguardo maggiore verso l'universo femminile. Ha studiato psicologia ed ancora la studia, in quanto la ritiene un lungo viaggio che non ha fine.