Da Marcel Duchamp a Jeff Koons ovvero: dal genio alla banalità

DI CRISTINA BELLONI

Nel secondo decennio del ‘900 un visionario, quanto eccentrico (per la sua epoca) artista francese di nome
Marcel Duchamp, fece scalpore con i suoi oggetti“ Readi-made”. Oggetti comuni, cioè (una ruota di
bicicletta, un orinatoio, uno scolabottiglie, ecc.), che estrapolati dalla loro condizione ordinaria e presentati
come forme in un contesto culturale-artistico, potevano assurgere allo status di “opera d’Arte” proprio
perché così pensate, volute e proposte da chi in quello specifico ambito si riconosceva ed era riconosciuto
come un “creatore”.

Naturalmente nel 1917, quando il gusto della collettività per l’espressività figurativa, anche negli ambienti
più colti, faticava molto ad accettare sia le tematiche che le tecniche impressioniste, i forti inestetismi
dell’Espressionismo o le visioni astratte futuriste, cubistee del Fouvismo, l’operato di Duchamp venne visto
come un atto di ulteriore “blasfemia” e di sfrontata provocazione.

La “pittura” nel senso accademico ottocentesco era ancora ampiamente in auge. Ma un gruppetto di
“pazzi” asserisce che l’Arte non debba più essere legata e costretta da schemi, che è la libertà espressiva
assoluta, senza limiti ad essere il vero motore del fare artistico.
Così prese vita un bizzarro movimento: il Dada, che già nel suo nome senza senso, attribuito dagli stessi
partecipanti, prelude alle intenzioni del gruppo.

Duchamp, Hans Arp con i suoi equilibri evanescenti appesi a fili, le costruzioni infinite fatte di carta,
cartone e oggetti riciclati di Karl Shhwitters (arriveranno ad estendersi per tre piani della sua casa), mettono
in atto una geniale quanto rivoluzionaria affermazione ideologica che ha introdotto in arte, la nozione della
supremazia del “concettuale” rispetto al fattuale. Assunto che verrà poi sviluppato ampiamente solo molto
dopo, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, da movimenti quali il “Fluxus”, l“Arte Povera” o
l’Inespressionismo americano.

Cosa di più scandaloso, innovativo ed avanguardistico (e non solo nella loro epoca) che porre all’attenzione
dell’erudito pubblico delle gallerie d’arte, un manufatto a quei tempi di uso ordinario come un semplice
scolabottiglie di metallo? Un vero e proprio “scacco matto” dal punto di vista filosofico, anche a tutta la
produzione artistica che sarebbe venuta dopo!

Se i tempi non erano allora ancora maturi, l’evoluzione del pensiero artistico ha dato largamente ragione a
questi folli pionieri che giocavano con le emozioni e con il senso della vita stessa.
E mentre l’Europa proseguirà nell’approfondimento storicamente coerente, di tutti i rivoli dei linguaggi
artistici e del pensiero astratto, la giovane America che soffre per così dire, di un certo complesso di
inferiorità, rispetto al patrimonio culturale del vecchio continente, cercherà nei propri valori e nelle
proprie consapevolezze, un suo nuovo modo d’esprimersi, attingendo alla vita di ogni giorno (il realismo
metafisico di Hopper), alle moderne icone (i ritratti ed i “contesti” seriali di Worhol e le coloratissime
gigantografie fumettistiche di Roy Lichtenstein), alle situazioni minimali e nonsense dell’Inespressionismo
sino all’affermazione: “tutto è arte” ( che si rivela un proseguo naturale dell’assunto duchampiano) del
Fluxus.

Ma se tutto questo si ascrive alla logica dello sviluppo filosofico del pensiero artistico e si riallaccia alla
concezione sbocciata proprio con l’antesignano Duchamp, nel frattempo un altro soggetto entra
prepotentemente a far parte del mondo dell’Arte: il mercato.

I meccanismi del mercato dell’arte, sviluppatosi appieno a partire dagli ultimi decenni dell’ottocento,
contrariamente a quanto possa sembrare, non hanno considerazione per il valere intrinseco delle opere e
nemmeno per la pregnanza delle idee.
L’intrinseco cinismo del mercato fa leva (e non solo nello specifico dell’Arte) sulle innate tendenze umane
al “mito” ed al possesso per confezionare “feticci” che inducano gli appassionati ad investire somme di
denaro anche ingenti per ottenere gli oggetti simbolo di uno status o di una moda corrente.

Worhol scriveva che: “..la capacità di far soldi con l’arte è un gradino sopra il fare Arte” . E in questo
paradossale assunto si riassume, insieme ad un crescente disorientamento per la concezione stessa di
“Arte”, la superficialità che ha contrassegnato in modo sempre più dilagante la produzione artistica
contemporanea di cui Jeff Koons con i suoi banalissimi quanto leziosi oggetti è un perfetto esponente.
La crisi del significato e della “funzione” della creazione artistica in quest’epoca multimediale, ha
certamente contribuito alla banalizzazione del prodotto, il quale non sembra ( per ora) aver più la capacità
di veicolare nessun messaggio.
Sprazzi di spontanea e vera creatività rimangono nei graffiti e nei murales della “street art” non
apparentemente commercializzabili.
A tale proposito diventa emblematica la recente performance di Branksy, valido e provocatorio esponente
della suddetta corrente espressiva.

Una piccola versione su tela della sua “Bambina con palloncino rosso”
(apparsa come murales a Londra nel 2002 e divenuta simbolo iconico della protesta per il conflitto in Siria),
recentemente venduta ad un’asta di Sotherby’s per un prezzo di circa un milione di sterline, si è
autodistrutto subito dopo l’acquisto per volere dell’artista stesso.
Questo “scherzo” e irrisione alle “operazioni commerciali” alle quali si vuole assoggettare la creatività, è
forse indicativo di una inversione di tendenza ideologica che piano, piano si va delineando.
Resta da vedere se il “mercato” considererà i resti del dipinto di Branksy come ulteriore feticcio da poter vendere

Immagine tratta dal web, lo scolabottiglie di Duchamp

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