La partita e altri racconti

DI GIOVANNI BOGANI

3. La partita

È quasi l’ora di andare: ed è la sera della partita. La partita che perderemo, quasi di sicuro, con la Spagna più forte di noi. La Spagna di Morata e di Busquets, di Jordi Alba e di Gerard Moreno. Ma è anche la sera in cui la Nazionale si può riscattare, dopo quei Mondiali nei quali non siamo riusciti neanche a qualificarci, la mediocrità presuntuosa di Ventura che diceva “certo che battiamo la Svezia”… Vabbè. Io ho letto delle vittorie del 1934 e del 1938, ho vissuto quella del 1982, Pablito Rossi, l’urlo di Tardelli, io avevo appena fatto il primo anno di università. E poi ricordo la vittoria del 2006, ero a Madrid, festeggiai a Puerta del Sol e mi rubarono il portafogli. E me l ricordo, la gente impazzita nel 1982 e nel 2006 per i Mondiali. Ma io questa partita me la perderò.

Perché è stanotte che devo andare a Cannes. Quando ho prenotato i biglietto, non ci ho pensato. Che bello, per quel giorno c’erano ancora posti liberi! Il bus parte stasera alle 23:00. Se la partita finisce al novantesimo, finisce alle 22:50. Ma se fanno i supplementari…

Piano diabolico per ottimizzare tutto il tempo possibile: cena dal mio amico Neri. Vediamo la partita insieme fino all’ultimo minuto possibile. Poi via verso la stazione dei pullman, più veloci della luce. Al settantesimo l’Italia, incredibile, sta vincendo. Forse ce la faccio a vederla vincere e a prendere il bus per Cannes. E invece no, Morata segna, tempi supplementari, non possiamo vederli, schizziamo via in auto. Firenze è deserta, Neri non conosce la strada per la stazione dei bus, che sta verso Scandicci, ma alla fine ci arriviamo. Nel piazzalone non c’è nessuno. Solo un gruppetto di africani.

Ciao Neri, grazie. Grazie di tutto. Metto nella pancia del bus il trolley che mi accompagna da secoli. Salgo su. Subito si fa buio, il bus parte, prende l’autostrada.

Ci sono solo stranieri, nel bus. Ma d’improvviso so cosa fare: il telefono. Nel buio, mentre l’autista imbocca un pezzo di autostrada, il mio telefono riesce a prendere la diretta Rai. I supplementari sono finiti, si va ai rigori. Ecco il primo… E l’immagine si blocca. Il calciatore sta in posa, il piede destro indietro, a caricare il tiro. Forse verso destra, forse verso sinistra. Il portiere teso, accosciato, pronto a balzare dalla parte giusta o da quella sbagliata.

4. Jorginho e Pogba

L’immagine si sblocca dopo dieci minuti. Ed è già successo tutto. Mentre gli africani nel Flixbus stanno dormendo, sdraiati come meglio possono sui sedili che impediscono di sdraiarsi, gli italiani stanno esultando. Tutti, meno uno. Io.

Vabbè. Esulto anch’io, in silenzio. L’ultimo rigore lo ha tirato Jorginho, dicono che lo ha tirato in modo sublime, piano piano, ma col portiere spiazzato che non poteva fare più niente. Jorginho lo ha tirato fra i piedi di tutti questi Pogba che stanno con le ciabatte che sporgono dai sedili, o con i piedi nudi direttamente che spuntano nel corridoio, tanti Abebe Bikila. A loro dell’Italia che ha vinto contro la Spagna importa come a me di una partita di curling.

E da solo, mentre il pullman va, illuminato solo dalla luce del mio telefonino, alzo le braccia al cielo. O meglio, al tetto del Flixbus. Sarebbe una bella foto, probabilmente. Una silhouette di uomo che esulta in un pullman tutto buio, illuminato dalla luce di un telefonino. Un pullman che assomiglia a un barcone di migranti.

Il pullman è una nave, dentro un oceano senza fermate. È un albergo senza stelle. Nessuno parla. Nessuno legge. Una ragazza, forse marocchina, di cui non mi ero accorto prima, è di una bellezza assurda. Ha gli occhi enormi, scuri, che luccicano nel buio. Sembra Edwige Fenech da giovane, e sta nel bus con un velo sui capelli e sui suoi vent’anni. Va in Francia, dai fratelli o dal promesso sposo. O forse ha solo un fidanzato, a Nizza o a Marsiglia.

Ci fermiamo a Genova, alle tre di notte, per pochi minuti. Un ragazzo, forse senegalese, forse della Costa d’Avorio, deve andare a Barcellona, e non capisce che deve cambiare pullman, questo non va a Barcellona. Sul sedile di fianco al mio, vedo un bel caricabatterie di cellulare tutto nuovo. Il mio bus sta per partire. Prendo il caricabatterie, scendo, vado dal ragazzo che deve andare a Barcellona, gli chiedo se è suo. Non finisce più di ringraziare. Siamo tutti stanchi, tutti perdiamo pezzi, in questa sera di luglio.

Strano, penso. Ho fatto due piccole buone azioni in un giorno.

5. Il bacio di Giada

Il bus continua a correre, silenzioso e ostinato. Superiamo il confine. Poco dopo, la polizia francese sale su. Arrivano con le torce elettriche, ci scrutano i documenti e le facce. Hanno la torcia elettrica tenuta come nei film americani, come fosse un pugnale, dall’alto in basso.

Mi guardano in fretta. Ma gli africani sì, li controllano e li ricontrollano. Edwige Fenech giovane rimane cinque minuti a guardare negli occhi i poliziotti francesi, con i suoi stupendi occhi che luccicano, neri, di fronte alle torce dei poliziotti.

I poliziotti francesi ci lasciano ripartire. Non ci costringono ad aprire la pancia del pullman, ad aprire tutti i bagagli, come accadde qualche anno fa, due ore nel nulla, tutti a terra. Ora è il pullman che, nella notte, continua ad attraversare il nulla.

Conto i minuti, conto le ore, non passano mai. Nel bus fa freddo e fa caldo insieme. I chilometri passano. Le ore sono scritte in rosso, numeri squadrati sopra la testa dell’autista, come le scritte che passano a New York, sopra Times Square. 2:00, 2:34, 3:12. Ancora non si arriva. Siamo in ritardo. In fondo era un viaggio di sole cinque ore. Ma ho cominciato a farlo quando ero già in fondo alla giornata. Una giornata col cuore socchiuso. Donne con il capo coperto dal velo, nei sedili più dietro. Chissà dove vanno. A fare che cosa. Se cercano un destino. Se ce l’hanno già. Se credono nel Dio in cui sono obbligate a credere.

Nessuno, in questo barcone che naviga lento, ha la mascherina. Nessuno. Tutti respirano a bocca aperta, inebetiti, semisdraiati sui sedili, con la faccia di chi potrebbe andare avanti così per mille anni. La nave continua a scivolare nella notte, supera lavori in corso, carreggiate dimezzate. Nell’altro senso, luci di ambulanze e poi una coda lunga chilometri, nella notte. La vittoria dell’Italia sulla Spagna, in fondo, è una cosa marginale nel lento e faticoso respiro del mondo.

Tre anni fa Giada, con i suoi vent’anni e poco più, scendeva dal treno in Puglia. La abbracciai nel sottopassaggio della stazione. Aveva una gonna corta, un vestito chiaro, le gambe lunghe, e ancora bianche, lei sorrideva. Per me, l’ultimo scintillare di adolescenza della mia vita.

6. Nice Riquier

Sono le quattro e mezza quando arriviamo a Nizza. Faccio aprire il portellone del bus verde. Il mio trolley c’è ancora. Il pullman riparte. Un piazzale, da qualche parte nel mondo. vuoto. È luglio, dopo pochi minuti c’è già un piccolo chiarore nell’aria.

Apro il telefono, con Google maps cerco la stazione del treno Nice Riquier. Ho visto che è la più vicina. Inizio a camminare. Qualcuno sta già portando fuori il cane, e mi guarda con uno sguardo poco amichevole.

La stazione non è una stazione, è un casottino con un binario. C’è una specie di tabaccaio, all’inizio della palazzina. Una donna, dentro. “J’ouvre à six heures”, mi dice. Sono le cinque e dieci. Dove compro il biglietto? “A la machine”. Vado alla macchina dei biglietti. C’è uno strano meccanismo antico, una rotellina verde da girare e sullo schermo devi premere quando appare la tua stazione. Poi ruoti ancora la manopola, e sullo schermo appare “Prima classe” e “Seconda classe”, tu clicchi. E così via. Un touch screen de fero. Primordiale. Che quando arrivo a pagare rigetta la mia carta di credito.

Anche il bancomat. Rifiuta anche quello. Non so che cosa fare. Non ho contanti, ho una banconota da cinquanta euro che la macchina non prende. Solo monete, e non dà resto.

Sopra una piccola scalinata c’è una ragazza che sta aspettando il treno. Non me ne ero accorto. Somiglia a una figura di Botero. Ha le gambe come piantate nella terra, è vestita di nero. Le chiedo se mi può cambiare una banconota da cinquanta euro, o se ci sono altri modi per fare un biglietto per Cannes. Lei, senza battere ciglio, mi paga un biglietto da 7 euro e 20 centesimi. Dice “poteva capitare a me, non ti preoccupare”. E io non so come rimborsarla, non so come ringraziare. Mi sembra incredibile tutto questo.

Cinque e mezza. Salgo le scalette fino all’unico binario. Lei ha camicia bianca, gonna nera, scarpe nere. Sembra l’agente segreto sovietico col puntale avvelenato nella scarpa in “007 Dalla Russia con amore”. Capelli neri lisci raccolti in una coda. L’aria serissima. Come per una missione impossibile. Parla al telefono, concitata. Ma non parla in francese. Di francese colgo solo qualche parola.

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