‘La vita schifa’ di Rosario Palazzolo, un inno alla libertà negata

DI VINCENZO SODDU

‘La vita schifa’ è l’ultimo romanzo dell’attore, regista e scrittore Rosario Palazzolo, edito quest’anno da Arkadia nella collana Sidekar e candidato all’ingresso nella dozzina dello Strega 2020. L’autore, allievo di Luigi Bernardi, costruisce in questo libro una trama vorticosa, delineata in un lancinante flash back, ma a ripartenze continue, che definiscono il personaggio del protagonista fin dentro i suoi pensieri.

Usando una lingua velocissima, senza pit stop, una lingua inesauribile, pregna di espressioni dialettali, una lingua che risucchia il lettore dentro un racconto frastornante, Palazzolo regala al tempo stesso al lettore una vera piece teatrale e uno sconvolgente romanzo sperimentale. Domina a tratti nel suo svolgersi una prospettiva a cannocchiale che indugia sui particolari, che lentamente costruiscono la personalità di Ernesto Scossa, apprendista per vocazione, ammazzatore per mestiere.
Autobiografico, per ammissione dell’autore, Ernesto si muove dalle sabbie mobili del quartiere Brancaccio verso una realizzazione della fase adulta che però lo vede sempre passivamente incatenato alle sue radici malate. La lingua diventa da subito protagonista assoluta del romanzo, svolta in capitoli lunghi una frase, senza una punteggiatura ortodossa, in una fluida alternanza di discorso diretto e indiretto, di incisi e digressioni, di neologismi che non sono altro che trascrizioni del parlato dialettale del capoluogo siciliano.
Il racconto comincia dal reclutamento e dalla prova, ed Ernesto pensa già a quali saranno i suoi pensieri dopo, e che ammazzare non è difficile ma far finta di niente lo è di più. E cerca continui pretesti per non crederci e torna indietro col pensiero a quando leggeva solo fumetti, a un’infanzia violata, sogna, dà importanza a particolari che nessun altro vedrebbe. Associazioni d’idee che nascono dallo scontro con una realtà che lui in fondo rifiuta e che si sublima soltanto nei ricordi personali, più profondi, in una sorta di percezione del tempo intima e irrazionale che da un particolare fa scaturire un doloroso ricordo del passato.
Ernesto in fondo è un buono. Gli manca solo il rispetto degli altri. Per questo egli non crede fino in fondo nel suo lavoro, anzi gli pare a tratti ingiusto, e trova anche, in esso, un motivo per giustificare la sua innata bontà, e allora di volta in volta aiuta un disperato a farla finita o una guardia incapace a sparire per non far più danni.
E legge libri fantasy per non pensare alla realtà che si trova ogni volta davanti. E chiama per nome la sua vittima, prima di spararle, perché chi muore ha il diritto di saperlo e rendersene pienamente conto. O s’impietosisce all’ultimo momento se alla vittima le hanno portato via l’auto. E qui comincia una storia d’amore così casuale che è per la prima volta veramente amore e Scossa dimentica la paura e rifiuta persino il suo mestiere, la sua stessa vita, anche se questa, con le sue radici malate, è impossibile da estirpare.
La conclusione ha il sapore della tragedia greca, con quel poco di catarsi che la vita di oggi può garantirci. Reset. Tabula rasa. Giustizia. Termini interscambiabili, perché a Palazzolo interessa soprattutto ribadire che il male nasce dalla colpa e le attenuanti gli sono in fondo estranee. È una questione di radici, e la vita stessa ci insegna questo.
Un inno alla libertà negata. Un autore potente e sorprendente che s’impone di diritto nel novero degli scrittori di primo piano del nostro panorama letterario.

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