Storia de l’U. n° 12 (L’U. in viaggio)

di Paolo Massimo Rossi

Storia de l’U. n° 12 (L’U. in viaggio)
L’U. stava tornando, era tornato. (Il viaggio in treno, col suo sferragliante aveva favorito un sonno a intervalli). Durante, prima di arrivare cioè, qualcuno gli aveva chiesandato: da dove, per dove? Un luogo e un tempo? L’U. aveva risposto. Sulla retella sustante aveva stemato il bagaglio, sistente in valigetta a cerniere serranti e in musismento a trompetta terminante in imbuto vasato.

Intanto, s’informò del rimborso: per l’afa incontrata e per il gelo interseccato. Poi avrebbe raccontato – a coloro che nello scompartimento erano in ansia angustiosa – tre racconti: di una donna, di una cosa indistinta, di un animale volante. Un solo dubbio: se finirle troppo presto! L’inventario l’avrebbe aiutato. Segnava sotto una riga la somma (da sottrarre).
Perdere e guadagnare, in altri termini.
L’U. divise il tempo per tre, per assonanza umorale. Nel fralluogo del tempo considerò (come sempre) passato e futuro, escludendo il presente non attraente e neanche bastante. Guardò fuori: era già notte. Il rumore del treno era ferrigno: non aveva imparato a pensarlo. Peccato di senescentitù(dine).
Smemoratezza: era opportuno per l’U. aver paura di morire? Immaginava la morte come una vecchia china su di lui, scarna la mano svenata di blu, manica a parte. Lei l’aspettava al binario, l’U., di cinquantanni o quaranta, non nonagenario, udito che non conosceva l’anno d’arrivo.
Il treno non si decideva, malgrado s’affrettasse: non era malato. La notte insisteva, (continuando) durante il viaggio, a mostrarsi tempestosa e chiara, qual quella amata da Caspar Friedrich. Un ricordo nel tempo (sempre di mezzo), di mille ore le un dopo l’altre attese. Ma il racconto della donna smaniava. Allora, narrava l’U.: lei aveva alzato al cielo le braccia, cadenti per gràvita soma, sciorinate, del genere cencio (nel secchio). Bellezza sfiorente in capelli sciogliente(si), sudici e grigi, scarmiti. Volto succhiato, voce da aiuto implorante, prima di riprendere un lavoro anelato: cioè sollevare vecchi oggetti, spostarli, avvinarli. Pantomime giaculanti, dedicate ad altre già decedenti.
La donna: lei non sapeva se fosse o no sola in casa, se dubitarne. Si alzò, dunque, la donna. Rimase immobile a guardarsi, mentre la luce del giorno era d’intorno e all’esterno: elargita, irrompente, divorata dall’ombra: era (fu) un oramai, sentimentale, invornita giammai.
Nello scompartimento sorridevano in tre. “E gli altri racconti?” Il seduto di fronte gli chiese.
L’ora scocchiava per la cosa indistinta in attesa.
“L’indistinta?” l’U. domandò.
“Orsù, non si vergogni”, disse quello al fianco sedente del primo seduto.
“Orsù, non tergiversi”, disse a l’U. l’affiancato.
Il treno correva nella notte, forse verso l’inizio del mondo. E l’U. raccontò.
La gente entrava e usciva dallo scompartimento… Il nostro? L’interruppe l’affiancato. No, disse l’U.: immaginario. L’altro tacque.
E l’U. …dallo scompartimento di continuo persone entravano in filo-cessione, come vigili e approntate ad autosorabile morte. L’ombra era invincibile, saliva sui volti, era la voce del silenzio (indistinto). Ma il silenzio permetteva di ritrovare il suono della giovinezza anecro(t)ica? Il treno si fermò inavveduto in secondaria stazione. La donna (quella citata) camminava sul camminamento affiancato, portando acqua in un secchio d’acquapieno, lo porse a quello al fianco del primo seduto che lo svuotò sulla testa di lei. Il treno partì.
L’affiancato: “Bellissimi racconti, me li deve scrivere sulla mia pagina FB, li leggerò leggendoli, lei mi deve autorizzare a condividerli, tutti aggiungeranno dei cuori, anche la donna inondata (più su e pocanzi, n.d.r.), di gioia piangerà”. Sorrise l’U nel frontato rispondere. Poi si alzò per afferrare il bagaglio sulla retella.
Ma l’affiancato:” E l’animale volante? Lei non può andar via così”.
L’U.: “Il volante volava nel silenzio fumoso, nella polvere smossa da terra e alta nel cielo. A cosa somigliava, se non a quell’ombra appena accennata? Lui (il volante) elargiva un piccolo ghigno, meno di un sorriso però, sul sembiante bassamente espressivo”.
Il volante o l’U.? Chiese il di fronte all’affiancato, rivolto all’U..
Il silenzio ora era calmo, esaurito era il mormorio. Le ruote più non giravano sugli assi lubricati ferrosi. Tra loro s’infilava il vento fischiante, portando la sabbia delle strade sterrate d’intorno e gli striduli gracchi dei pennuti indifferenti ai viaggianti. La notte restava tacita, come in attesa di un’altra tempesta. Passeggeri in affanno. Le espressioni, pronte a domande senza risposta, amusavano l’U. I latrati di cani rognanti salivano, nella notte odorosa, dalle colline e dai villaggi sperduti, dove, da tempo, vivevano taglialegna incupiti da inestirpabili calli. L’U. si mosse, saggiamente dicendo: Un minimo di memoria per vivere coi necessari rimpianti. Necessari? Esclamarono in coro i tre sedenti e chiedenti in un confuso e strenato parlare.
Sì, necessari, l’U. chiosò come ultimo detto duellante. Il di fronte all’affiancato gli chiese: Potete dirmi cos’è quello svaso ottonato? E l’U., rispondendo gentile: un curiosometro. Cioè un cu(cù)-metro, o curio-somètro. Non parve soddisfatto il chiedente, che chiese: Ungherese? Ma l’U.: no, perché? Così, mi sembrava, quello rispose.
Poi l’U. si avviò e scese dal treno ormai pronto a partire.
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